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La Comunicazione, nel settore automobilistico, o Automotive, come lo chiamano i guru e i para-guru, cercando di dare un tono internazionale al fatto che facciano i venditori oppure, in casi peggiori, i giornalisti prezzolati dalle aziende automobilistiche, dall’indotto (altro termine bellissimo) e giù, giù, giù, fino al mondo del Detailing, incontra spesso dei tic comunicativi che definire tic è fuori moda, ma rende ancora vagamente l’idea.
In America, dove la Psicologia si applica a qualsiasi cosa, spesso con risultati che fanno capire sia meglio farsi meno seghe mentali e spendere meno in indagini di mercato che poi si rivelano inattendibili, si parla di “Share of Voice”, da più di Sessant’anni.
Lo Share of Voice è il tono con il quale si dicono le cose, o si scrivono. Convinti che siano le donne a portare i pantaloni, in casa, e la cosa è spesso tristemente vera, succede di incappare in campagne pubblicitarie al limite, anzi, oltre il limite dell’agghiacciante, e per questo termine si ringrazia Paolo Villaggio. Ci sono state campagne totalmente indirizzate a un pubblico femminile, quando l’auto in questione non aveva nemmeno un bullone che fosse rivolto a quel target, e ci sono state campagne indirizzate alla famiglia, ma sempre con la donna che decide per tutto e per tutti.
Ci fu un caso, da parte della Nissan, particolarmente esemplificativo della pochezza di contenuti, e del tono inopportuno tenuto nel Voice over, cioè nelle intenzioni della voce fuori campo, femminile e da ultraquarantenne, madre di figli piccoli ma non piccolissimi, che doveva decantare la Almera: “Essere Almera” era il titolo, già banalotto di suo, rassicurante sull’Inutile, ma l’apice del kitsch veniva raggiunta durante i Trenta secondi di dipanarsi di immagini di Almera gialle e rosse, Almera Tre porte che non voleva nessuno o, peggio, a Cinque porte, sproporzionate e stilisticamente indifendibili. Bene, all’apice di una pseudo-poesia senza senso, da alberghetto che tenta di raccontarsi per come non è, quando è la pensione di terza fila a Igea Marina, veniva pronunciato un orribile “Nello skyline di un sorriso”.
Beh, che il sorriso abbia uno skyline, è tutto da dimostrare. Se si prende un pugno, e si perde qualcosa, può darsi succeda anche questa trasformazione, ma lo skyline di un sorriso, detto da un’azienda che produce la Skyline, che però è ben lontana da quanto mediocre potesse essere l’Almera, fa ridere. E ridendo, non si notano segni di uno Skyine. A meno che non abiti in una città del Guatemala, con le case alte Due piani, in un altopiano non alto e non basso, mediocre, senza salite o discese, senza curve. Insomma, la morte.
Che l’automobile sia femmina, però, lo ha detto un tizio ritenuto, forse un tantino erroneamente, un grande poeta: Gabriele D’Annunzio.
Forse, questa, è la sua intuizione più pregiata, ma rimane alquanto ruffiana, se vista con il senno di poi. L’Automobile è l’Automobile, e ci sono disegni, stili, modi di guidarle che sono peculiari, e che fanno somigliare alcuni modelli a una femmina, ed altri a un maschio.
D’Annunzio, però, conosceva gli italiani e il loro attaccamento a mammà, tanto che gli sposati, spesse volte, alla lunga decidono che la loro partner sia la loro madre bis. Ed è così che, l’Automobile, ha smesso di essere al maschile, o impersonale, come lo è nel mondo anglosassone, ed è diventata donna. Lasciando spazio a fraintendimenti senza fine,
Che l’Automobile sia donna, non rappresenta necessariamente l’argomento di questo breve articolo quasi basato sul sesso degli angeli, anche se è il presupposto per parlare della più grande sciagura della dialettica, che si riassume in: “La mia Leon Cupra è la mia bimba”. Quindi, esci con una minorenne? E magari te la messa apposto tuo cuggino?
“La mia bimba”, o “La mia bambina”, è un retaggio anni Sessanta, figlio della volontà di essere spacconi, famosi al bar del Giambellino, tanto da presentarsi con una 500 e tamarrerie dell’epoca, che spaziavano dalla mascherina sbagliata, ai cerchi fuori misura, fino a strisce grafiche già fuori moda e propense a deteriorarsi alla svelta.
Se inizialmente “La mia bimba” era tamarro cool, da alternativo benestante, altrettanto deprimente e non certo migliore per una questione di portafoglio, il peggio è arrivato un nanosecondo dopo, e si è acuito alla fine degli anni Settanta, con “Happy Days”. Insomma, una spacconata alla Fonzie, un modo di dire diffuso, che non lascia alcun valore aggiunto e che, anzi, fa figurare la macchina come una potenziale creatura urlante tra i tavoli del ristorante, così come fa figurare il proprietario come un pedofilo.
Oltretutto, scambiare la propria auto per la propria figlia, o fidanzata, è un po’ al limite di una settimana bianca in TSO.
D’Annunzio, in breve, ha fatto diversi danni, ma il peggio lo si sente e si vede ai raduni, dove tutti chiamano bambina la propria automobile. Che cos’avrebbe di originale, se tutti la chiamano allo stesso, identico, modo?
Fiat stava facendo diventare maschile, solo nel nome, la sua piccola di maggior successo: la Panda. Si mise di traverso la Renault, per via della Twingo. Gingo suonava come un affronto, ma soprattutto suonava male. Ogni tanto, in Renault, fanno qualcosa di buono anche per le altre case.
Mina, che di automobili ne ha sempre capito qualcosa, visto che si è presentata al suo primo Sanremo con la sua Alfa Romeo 1900, per la Panda del 2003 cantò “Don’t call me baby”, riadattamento simpatico e divertente di “I love you baby”, di Gloria Gaynor.
Beh, Mina è sempre stata avanti, e per lei parlano gli oltre Cento milioni di dischi venduti nel Mondo, ma bisogna essere molto indietro, oggi, per indicare la propria auto come “la mia bambina”.